UNO STRANO ADDIO

 
La vecchia sveglia sul comodino di legno inizia a suonare. Apro un occhio e mi accorgo che sono già le nove. Non devo andare al lavoro, perciò mi raggomitolo sotto le coperte. Quel tepore m’invoglia a crogiolarmi nel delicato momento tra il sonno e la veglia, dove ancora non sei reale e i sogni faticano a tornare nell’oblio. La sveglia riprende a suonare. Mi alzo dal letto, e il freddo della stanza mi costringe a coprirmi con un vecchio maglione. Quello che mia nonna aveva indosso la sera prima di morire. Tutto è rimasto come quella notte; questa casa ha finito di vivere con lei. Nessuno è più entrato, fatta eccezione per mia madre, che appena finito il funerale, ha arraffato tutto quello che di prezioso c’era in casa.

Sorrido perché, per fortuna, io non assomiglio a quella donna. Ho smesso tanto tempo fa di arrabbiarmi per questa sua pochezza. Ora la vedo come una donna fragile, sola, e mi rendo conto che quella bramosia di arrivare prima, di accaparrarsi tutte le cose di valore, è sempre stato il suo modo di superare la paura di essere povera, o forse di morire. Da tempo ho abbandonato l’idea di avere una mamma che si prenda cura di me.

Il mio stomaco mi ricorda che non mangio da… quanto? Da ieri pomeriggio, direi. Dentro la piccola dispensa è rimasto un pacchetto di biscotti secchi e un pacco di spaghetti Numero 3. Quanto vorrei una bella brioche, di quelle calde appena sfornate, con la crema che esce al primo morso. Non posso perdere tempo andando al bar. Domani mattina, se avrò sistemato la maggior parte delle cose, mi concederò la mia colazione preferita.

La caffettiera è sul fuoco e dopo pochi minuti il suo fischio mi avverte che il caffè è pronto. Mi siedo, con la tazzina stracolma di quel liquido nero bollente, al tavolo della cucina. Adoro il caffè lungo, quello che non riesci a bere in un sorso solo. Mi piace stare qui seduta a guardare fuori dalla finestra, e mi rendo conto che questa è la mia vera casa. Accidenti, che schifo. Non mi ricordavo che il caffè fosse così amaro. Ma ci ho messo lo zucchero? Sul tavolo non c’è. Di solito nonna lo teneva nella zuccheriera d’argento. Mi guardo intorno, la cerco dov’è sempre stata, ma non la trovo. Che scocciatura: il caffè amaro proprio non mi piace.

Con un biscotto in bocca rovisto nella mia borsa alla ricerca di una bustina: trovata, sono salva. Con la tazzina di caffè in mano comincio a girare tra le stanze facendo l’elenco di ciò che devo fare: piegare gli abiti di nonna nei vari scatoloni, buttare via il suo spazzolino, raccogliere tutti i libri di cucina. La casa va svuotata entro qualche giorno per l’arrivo dei nuovi inquilini.

Sul comodino accanto al letto, dentro una di quelle cornici barocche, il viso dei nonni mi ricorda quanto era bello vederli insieme. Ho sempre avuto la convinzione che fossero uniti da un filo invisibile, come arrivati su questa terra sapendo di essere l’uno la parte dell’altro. Chissà se mi accadrà mai qualcosa di simile e se la mia metà fosse stata portata per errore in Africa o in America? Di sicuro non è Andrea. Mi tocco l’anello della nonna, che ha preso il posto della fede d’oro che il mio ex marito, otto anni prima, mi ha messo al dito.

Decido di lavarmi dopo, perché il bagno è ancora troppo freddo. Così accendo la stufetta elettrica e guardando quel marchingegno, forse sopravvissuto alla Seconda Guerra Mondiale, mangio un altro biscotto e continuo il mio giro nei ricordi. Non sono pronta a togliere ogni traccia della nonna. Apro il vecchio armadio di legno lucido e dai suoi vecchi vestiti mi arriva, come una carezza, il suo profumo e inizio a piangere. Mi manchi, nonna. Da quando sei morta mi sento tanto sola. Eri tu che mi prendevi la mano e mi ascoltavi nei momenti di tristezza.

Non sono pronta a mettere via i suoi vestiti, così propendo per cominciare dai piatti, ma mi rendo conto che ogni angolo, ogni centimetro di questa casa è pieno di ricordi. Tutta la mia infanzia è qua. Mi siedo sul divano e davanti a me la scadente copia di un Degas regna indiscussa sulla parete sopra alla poltrona. L’Étoile, una di quelle copie su tela dai colori ingialliti che si possono trovare sulle bancarelle dei mercatini dell’usato. Quante volte ho sognato di essere io la bellissima ballerina dalle braccia aperte, che sembra dire al mondo “sono qui”. Quanti pomeriggi d’inverno ho passato a ballare goffamente sulle punte delle scarpe.

Un pomeriggio la nonna aveva tirato fuori un piccolo pezzo di tulle e in poco tempo era riuscita a creare il più bel tutù bianco che avessi mai visto. Ero rimasta seduta sul mio panchetto incantata a guardarla. Credo che la mia passione per il cucito me l’abbia trasmessa proprio lei. Il trascorrere del tempo è veramente strano, da piccoli sembra che tutto scorra con una velocità incredibile, invece adesso tutto va con una pesante lentezza. Il tempo è rallentato e con lui anche il mio cuore. Le emozioni non hanno più sapore e i colori sembrano aver perso la loro brillantezza. I giorni si susseguono lenti, uguali e pesanti.

«Quel quadro voglio che sia tuo», mi diceva sempre quando restavo per ore ad ammirare la ballerina. A volte da piccola mi sembrava quasi che si muovesse e così stavo davanti al quadro ad aspettare un piccolo gesto. Ero sicura che qualcuno l’avesse imprigionata in quell’immobilità e nei pomeriggi d’inverno piroettavo leggiadra davanti a lei. Adesso la stessa prima ballerina di Degas mi guarda negli occhi. Sembra che adesso che io sono cresciuta si sia rimpicciolita.

«Ciao, mi riconosci?» Ma che faccio, parlo con un quadro? M’inchino davanti a lei: mi va di scherzare con la mia infanzia. Non voglio staccare quella brutta copia dell’originale, perché non ci sarebbe più stato un posto così adatto per quel quadro. Così piroetto, e ruoto, ruoto, finché non perdo l’equilibrio e mi aggrappo al quadro che precipita a terra mentre io riesco a cadere maldestramente sulla poltrona. Tra i vetri per terra vedo un sacchetto di tela bianca. Lo apro e dentro trovo un piccolo foglio stropicciato. Lo apro e trovo la ricetta della torta di tagliatelle, che mia nonna non aveva mai dato a nessuno, nemmeno a mia madre. Nel sacchetto c’è anche una piccola collana d’oro bianco che prima era stato della mia bisnonna, e poi di mia nonna.

Sorrido. La prendo in mano e mentre l’indosso sento le mie radici su di me. Mi viene da ridere. Immagino il volto arzillo di mia nonna che mi fa l’occhiolino. Faccio un piccolo inchino di ringraziamento alla ballerina, ignara del tesoro che nascondeva. Ora sono pronta a inscatolare quasi tutto, ma l’idea di fare la torta della nonna mi depista. Come una bambina a cui è arrivato un inaspettato regalo, corro in bagno. Non posso andare a fare la spesa in pigiama, perciò in fretta e furia mi lavo la faccia, i denti e mi metto i jeans che avevo buttato sul letto la sera prima. Mi sento agitata ed eccitata come non succedeva da tempo.

Faccio un salto al più vicino negozietto. Ma non quello solito in cui andava nonna, perché finirebbero per sommergermi di domande e frasi di circostanza. No, decisamente non ne ho tempo né voglia, perciò opto per l’altro negozio, il cui proprietario è decisamente di poche parole. Oggi fa proprio al caso mio. Allora mi serve: farina, zucchero, lievito, tagliatelle. Penso in fretta, sbirciando di tanto in tanto la preziosa ricetta. Prendo tutto, pago e uscendo accenno un sorriso in risposta allo strascicato buongiorno del negoziante. Riprendo l’auto e torno a casa.

Vado in cucina e inizio a pesare la farina con la vecchia bilancia di nonna e mentre seguo con precisione maniacale la ricetta, prende forma un impasto perfetto. Poco dopo l’odore della torta in forno profuma l’aria e mi fa sentire di nuovo a casa. Ne avevo bisogno per superare la morte della nonna e la fine banale del mio matrimonio. Già, banale, perché Andrea se n’è andato dicendomi di non amarmi più, ma in realtà il suo “non ti amo più” si chiama Alice. La torta è pronta. Allora apro il forno e il calore imprigionato si libera sulla mia faccia, appannandomi gli occhiali che ormai sono costretta a portare. Comprarli è stata la resa all’avanzare dell’età. Ma, per prendere in giro i miei cinquant’anni, li ho scelti il più vintage possibile. Sorrido.

In questo momento, piena di farina ovunque, mi sento come una bambina. Non mi stupirei se lo specchio mi rimandasse l’immagine di me a dieci anni. Appoggio la mia opera d’arte sul tavolo e ne taglio subito una fetta. Troppo calda anche per la mia impazienza. Mi faccio il caffè mentre aspetto e dopo pochi minuti, seduta al vecchio tavolo, mi riempio la bocca di tutti i meravigliosi sapori della mia infanzia. Mentre continuo a gustarmi la torta capisco che per fare la torta della nonna serve la nonna. Ma con quella ricetta mi ha regalato una parte di lei. Nonna non c’è più, ma potrò fare quella torta tutte le volte che avrò bisogno di stare con lei.

Francesca Pala, nata il 1 novembre 1971, vive a Modena. Appassionata fin da piccola di scrittura, oggi scrive brevi racconti e poesie sul suo profilo Facebook e sulla sua pagina persatralestorie.it. A seguito della diagnosi di sclerosi multipla nel settembre 2017 e dopo aver lottato contro il tumore al seno nel 2019, ha deciso di scrivere per il pubblico.
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