ALLA RICERCA DEL MIO NASO

Edoardo: il nome che gli avevano dato era stato un bel problema raggiunte le medie.

Chi diavolo avrebbe voluto chiamarsi Edoardo? Se glielo avessero chiesto, forse avrebbe evitato quella seccatura proponendo un anonimo Andrea o Francesco, ma no, lui aveva l’onore di portare il nome del suo bisnonno e, come se questo non bastasse, aveva ereditato da lui anche il naso. Ovviamente, non un piccolo naso aristocratico o un naso greco. No, aveva ereditato un bel nasone, che si piazzava lì, al centro del suo volto, fiero e enorme, comprendendo buona parte del suo viso, che non era più di un bambino e nemmeno di un uomo.

Già l’adolescenza non era proprio un periodo facile della vita e quel nome altisonante, vecchio e arcaico, non lo aiutava certo a sfuggire alle prese in giro dei compagni, figuriamoci il nasone poi!

Quel giorno era la ricorrenza della morte di nonno Edoardo, avvenuta più di sessant’anni prima, e toccava a lui accompagnare la bisnonna dalla veneranda età di novantatré anni al cimitero.

Come tutti gli anni, avrebbe sentito la solita storia: “Edoardo, lo sai che il tuo caro bisnonno è partito per la guerra che aveva poco più di 20 anni? Era così bello nella sua divisa. Se fosse ancora qui, sarebbe orgoglioso di te. Gli assomigli così tanto.” E poi, immancabilmente, baciava la foto sbiadita sulla sua tomba. Era strano vedere il nome inciso a calce su quella lapide, anzi, a dire la verità, lo faceva rabbrividire: Edoardo Fregni. 12-4-1920 – 4-10-1944. Se non fosse stato per le date, poteva essere la sua.

Lasciò la nonna a parlare con i suoi ricordi e si sedette con le gambe a penzoloni sul muretto che circondava le migliaia di tombe che saturavano il terreno, una accanto all’altra. Si toccò il naso e decise di voler conoscere meglio il suo omonimo. Arrivato a casa, intervistò prima la bisnonna che parlò di lui come di un angelo: buono, elegante e fiero. Poi fu la volta di sua nonna che ricordava la sua severità, il suo essere silenzioso e l’unica volta che le aveva sorriso prima di partire, arruffandole i capelli con la mano.

“Tu, mamma, che mi dici del bisnonno Edoardo?” lei si asciugò le mani sul piccolo burazzo e, girandosi verso il figlio, disse: “Non lo so, non l’ho mai conosciuto. Ma se vuoi, di là ci sono delle foto e forse qualche lettera.” Così si sedettero con quel piccolo pezzo di passato tra le mani: piccole foto sbiadite dai toni del grigio ritraevano un uomo alto dai capelli scuri, il viso molto giovane, reso più adulto dai lunghi baffi che nascevano alla base di quell’imponente naso per poi diventare folti ai lati della bocca. Guardando il suo antenato, pensò che effettivamente quel volto non avrebbe potuto avere un naso diverso da quello.

“Mamma, questa cos’è?” chiese allungando alla madre una spilla d’argento raffigurante una sottilissima aquila con le ali spiegate. “Credo sia la spilla che un compagno di guerra ha portato alla nonna insieme all’unica lettera che aveva scritto e che teneva con sé insieme a una foto di famiglia.” Edoardo cominciò a immaginarlo nelle trincee, sporco, affamato e infreddolito. Ma non era scappato, era rimasto lì a fare il suo dovere. Un’altra foto lo ritraeva sorridente accanto a una donna giovanissima. Aveva in mano un grappolo d’uva che sembrava voler far vedere a tutti.

“Chi è questa donna?” “È la bisnonna, bella vero?” Per Edoardo era difficile riconoscere in quella giovane donna la sua bisnonna che aveva sempre visto con il volto rugoso e i capelli raccolti diligentemente con un piccolo chignon grigio. “Sembravano felici. Ma l’uva che c’entra?” “La nonna racconta sempre che quella fu la prima annata in cui ebbero l’uva buona per fare il vino.” “Quindi la nostra azienda di vino l’ha iniziata lui?” “Già… nel 1938 con suo padre.” La madre di Edoardo si mise a guardare le foto una dopo l’altra, persa nella sua infanzia. Edoardo rimase lì a guardare la breve vita di quell’uomo racchiusa in quella manciata di fotografie.

“Edo, lo so che non ti piace il tuo nome, ma quando sei nato ho voluto darti il nome dell’uomo che ha costruito tutto ciò che abbiamo: l’azienda e la nostra famiglia. È stato lui a chiedere alla nonna di andare avanti, di tenere unita la famiglia ad ogni costo e di curare il vigneto come aveva curato il loro matrimonio.” Si fermò per dargli una piccola lettera scritta a mano e aggiunse: “Ho sempre creduto che un giorno tu ne saresti stato fiero. Leggila. Noi tutti veniamo da lì.” Poi si alzò e lasciò il ragazzo da solo con la lettera. Lesse le poche parole scritte con mano tremante del nonno. Si toccò il suo naso e sorrise. Lui avrebbe portato avanti la famiglia e l’azienda di famiglia, come voleva il nonno. Ora il suo nome e il suo naso avevano una storia. Gli sembrò che il nonno lo guardasse e fosse fiero di lui. Forse era stato uno scherzo dell’immaginazione ma avrebbe giurato di averlo visto fargli l’occhiolino. Impossibile, forse. Sentiva di avere un legame con quel nonno mai conosciuto, ma a cui somigliava in modo straordinario. Quel nome e quel naso erano le sue radici e cominciò a pensare che fosse bello avere radici così forti da permettergli di poter arrivare al cielo senza paura di cadere. E in quel momento, il suo nome gli parve quasi bello e il suo naso un regalo unico del suo nonno, che non aveva mai conosciuto.

Francesca Pala, nata il 1 novembre 1971, vive a Modena. Appassionata fin da piccola di scrittura, oggi scrive brevi racconti e poesie sul suo profilo Facebook e sulla sua pagina persatralestorie.it. A seguito della diagnosi di sclerosi multipla nel settembre 2017 e dopo aver lottato contro il tumore al seno nel 2019, ha deciso di scrivere per il pubblico.
Articolo creato 33

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Articoli correlati

Inizia a scrivere il termine ricerca qua sopra e premi invio per iniziare la ricerca. Premi ESC per annullare.

Torna in alto