OCCHI IN PRESTITO


“Accidenti alle scarpe! A quando le compro strette solo perché mi piacciono tanto e poi non riesco a camminarci bene! In effetti, ero arrivata alla conclusione che non so scegliere né le scarpe né gli uomini. Ecco, finalmente una panchina. Non riuscivo a fare un passo di più: arranco con le dita dei piedi arricciate su se stesse e mi lascio cadere, atterrando in malo modo. Mi liberai immediatamente di quelle armi di tortura. Mi accertai di avere ancora dei piedi: li guardai muoversi e riprendere colore. Proprio in quel momento mi resi conto che non ero sola: accanto a me un distinto signore dalla barba bianca sta sorridendo.

“Mi scusi, ma non ce la facevo più!” dissi scusandomi e ritraendo i piedi scalzi sotto la panchina. Per quanto poco educato fosse, non mi sfiorò nemmeno l’idea di rimettermi quelle scarpe, ora che il dolore sembrava magicamente scomparso.

“Non si preoccupi, capita a tutti di arrivare così stanchi da cadere stremati su questa panchina, io lo so, spesso sono qui,” A quel punto mi venne il sospetto che non si fosse accorto dei miei piedi nudi.

“Già, a volte è massacrante attraversare il parco con le scarpe da ufficio,” nascosi i miei piedi ancora più sotto la panchina.

“Ha ragione, su quei trampoli, non so come facciate a sopravvivere voi donne,” Ribatté ridacchiando il mio compagno di panchina, che, questa volta, si era leggermente girato verso di me.

“Le confido che a volte non si resiste proprio, ma sono così belle le scarpe con il tacco,” Ammisi con un sospiro dispiaciuto, vedendo quelle bellissime scarpe nere abbandonate sul prato.

“Forse, ma, se me lo consente, sono più attratto dalle donne che sorridono e con le scarpe basse,”

“Perché?” Chiesi incuriosita.

“Perché non hanno paura di essere ciò che sono, di essere comode, vere; perché le donne con i tacchi alti sono così attente a non cadere che non si godono il paesaggio,” disse tornando a guardare davanti a sé attraverso quegli spessi occhiali scuri.

“Direi che è una teoria veramente interessante. Forse andrò a casa a piedi nudi, almeno finché c’è erba,” L’uomo scoppiò in una grassa risata, calda e piena, come lo erano i colori di quel pomeriggio d’autunno. Mi uni a lui. Mi sentii improvvisamente felice, appagata e non avevo per nulla voglia di tornare al mio frenetico mondo di scarpe alte e strette.

“Posso chiederle un immenso favore?” mi chiese un po’ imbarazzato.

“Certo, se posso, volentieri,” Lo incoraggiai, sentendomi leggera e libera senza le scarpe.

“Mi può descrivere quello che vede?” Si aggiustò gli occhiali sul naso, prima di aggiungere: “Vede, sono cieco ormai da molti anni e comincio a scordarmi i colori, a non ricordare come è fatto un albero, una casa. Sto dimenticando le immagini e il buio sta mangiando tutti i miei ricordi.”

“Mi spiace,” sussurrai, pensando a quando dovesse essere brutto vivere nel buio; vivere dove la luce non arriva mai e il volto delle persone è solo uno sbiadito ricordo. Mi guardai attorno e in quel momento cercai di riempirmi gli occhi di tutto ciò che vedevo.

“E’ stata una malattia che mi ha colpito gli occhi,”

“Ma come ha fatto ad accettare tutto questo?” quella frase era sfuggita al controllo della mia mente, scivolando tra i miei denti, era riuscita ad uscire dalle mie labbra. Trattenni il respiro in attesa.

“E’ stata dura. Credo di aver distrutto tutto ciò che avevo in casa dalla rabbia, quando all’inizio riuscivo ancora a vedere le ombre degli oggetti. Poi quando ho rotto tutto quello che avevo, ho dovuto rassegnarmi a ciò che stava succedendo. Sono stato così tanto arrabbiato da perdermi le ultime volte che avrei potuto vedere ancora la luce. Sono stato così stupido da buttare via il tempo che avevo, arrabbiandomi contro l’inevitabile,” Non sapevo cosa dire. Rimasi in silenzio a guardare davanti a me, mentre la brezza pomeridiana accarezzava i nostri volti.

“Non so se riuscirò a farle ricordare i colori, ma questo pomeriggio sembra un po’ magico,” Cosa era quel pomeriggio per lui e per me? Dopo un momento di silenzio, durante il quale avevo chiuso gli occhi e avevo ascoltato il calore del sole autunnale sulla pelle, tornai a guardare davanti a me e iniziai a parlare:

“Sembra che l’autunno abbia tinto di rosso e di giallo tutto il parco, gli alberi infuocati mi ricordano il fuoco scoppiettante che si erge alto e fiero nel camino. Sente il sole che ancora cerca di scaldarci la pelle? Lo stesso calore del fuoco che ci riscalda i piedi infreddoliti. Avvolti da pesanti calzettoni di lana. Le foglie secche gialle e marroni, come il mallo delle castagne, ricoprono il verde del prato creando vere e proprie macchie gialle, crepitanti sotto i piedi. Ricorda il giallo del sole?” L’uomo accanto a me annuì in silenzio, cercando di ricostruire i colori nella sua mente.

“Vada avanti, la prego,”

“Allora, in questo momento il parco è quasi vuoto. Sente il calpestio delle foglie secche? Poco lontano da noi c’è un uomo che corre. Mi chiedo come faccia. Io, quando arrivo a casa, sono così stanca!”

“Immagino senza le sue bellissime scarpe,” ridemmo insieme come due bambini. “Mi sta regalando i colori, le dispiace continuare?”

“Sotto un grande albero c’è un gruppetto di adolescenti che ridono e si prendono in giro. Che bella età, la loro: nessun pensiero importante, nessuna grande responsabilità. Immagino che tra poco andranno a casa e avranno una mamma che li accoglierà con un tè fumante brontolando sull’ora del rientro.” Il cielo stava assumendo i colori bruni che annunciano l’arrivo del buio.

“Mi sembra sia passato un secolo quando pensavo di avere il mondo nelle mie mani.”

“Già. Ricordo quando correvo sull’erba e giocavo a palla con gli amici fino all’ultimo minuto, prima di rincasare con il cuore in gola, per paura di essere sgridato per il ritardo.” Persi nei ricordi, il silenzio si mise tra di noi.

“Sento ancora dei passi che si stanno avvicinando a noi. Chi sono?” quell’uomo si era aggrappato ai miei occhi.

“Sono due innamorati, che si tengono per mano,” gli risposi con quel tono complice di chi sta rivelando un piccolo segreto e non vuole farsi sentire.

“Si stanno avvicinando a noi: lui la sta guardando con gli occhi di chi è veramente cotto e lei sta sprizzando gioia da tutti i pori, mentre scherza con lui. Mi sembrano una bella coppia. Beati loro.” questa volta ero io che mi sentivo sola e al buio. Fermarmi ad osservare ciò che non avevo, mi ricordava quanto fossi sola.

“Le manca un uomo, vero?” quell’uomo ci vedeva meglio di molte persone che conoscevo. Mi girai a guardare quel volto sconosciuto e poi i due ignari passeggianti.

“Già. Fermarsi e guardare veramente le cose, a volte, ci ricorda ciò che non abbiamo.”

“A volte bisogna fermarsi,” ribattè l’uomo sulla panchina. Quella frase, in quel momento, mi fece capire che avevo lasciato qualcosa in sospeso.

“Adesso la devo proprio salutare, si è fatto veramente tardi,” cercai di far entrare di nuovo le scarpe nei piedi, che però si ribellarono fino allo stremo delle forze. Decisi che avrei passeggiato nell’erba a piedi nudi e che avrei buttato via quelle scarpe appena tornata a casa.

“Certo, mi scusi se l’ho trattenuta. Grazie per avermi ridato un po’ di colori e luci.”

“Grazie a lei. Mi ha ricordato di guardare. A proposito mi chiamo Sara. Buona serata.”

“E io Antonio. Arrivederci Sara e grazie.” Me ne andai camminando sull’erba soffice del parco, assaporando i mille odori, ascoltando le voci che mi arrivavano alle orecchie portate dalla leggera brezza e guardai quel parco come se non lo avessi mai visto. Guardai con gli occhi di un cieco che torna a vedere.”

Francesca Pala, nata il 1 novembre 1971, vive a Modena. Appassionata fin da piccola di scrittura, oggi scrive brevi racconti e poesie sul suo profilo Facebook e sulla sua pagina persatralestorie.it. A seguito della diagnosi di sclerosi multipla nel settembre 2017 e dopo aver lottato contro il tumore al seno nel 2019, ha deciso di scrivere per il pubblico.
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